Nel fantastico mondo dell’autopubblicazione [1° parte]

Cosa pensereste se un amico vi dicesse: “vorrei che fossi il mio Piero Angela del Self-Publishing”? Forse, dapprima, vi scapperebbe un sorriso; poi, se siete tra quelli della mia generazione, cresciuti a pane, cioccolato e Super Quark, vi si innescherebbe un forte senso di responsabilità per il compito che avete accettato (e forse pure un po’ di ansia da prestazione, visto il termine di paragone) e infine vi andreste a cercare la cara vecchia sigla dello storico programma Rai.

È più o meno così che è andata quando io e Erre (aka Francesco Rende) ci siamo sentiti in merito a questo guest post, il cui obiettivo è introdurre chi lo leggerà al “fantastico mondo dell’autopubblicazione”. Fortuna che non mi sono fermata alla sigla e, alla fine, ho scritto anche questo post.

  • Cos’è il Self-Publishing?

Cominciamo dalle basi e vediamo cosa si intende per Self-Publishing (autopubblicazione o ancora auto-edizione). Come dice il termine stesso, si tratta della pubblicazione fai-da-te del proprio libro, al di fuori del classico circuito editoriale: il self-publisher è, di conseguenza, quello scrittore che pubblica il suo libro senza il supporto di un editore.

Ma si può fare? Non ci sono appunto le case editrici per questo? Beh, sì, se è per quello ci sono anche i falegnami, ma nessuno ci vieta di andare al Brico-(qualcosa) di turno, comprare attrezzi e materiale e costruire da soli la nostra cassettiera. È un po’ quello che succede con i libri: lo scrittore non solo scrive il testo, ma si occupa anche di confezionarlo, pubblicarlo e metterlo in vendita; il tutto a sue spese. A pensarci, in effetti, una differenza tra il libro e la cassettiera c’è, ed è l’ambizione: mentre la cassettiera ce la teniamo in stanza, il libro vorremmo anche venderlo.

  • Il Self-Publishing è sempre esistito

Il fatto che per definire questa tendenza editoriale si usi un anglicismo, che sia oggi forte oggetto di dibattito tra gli addetti al settore e con un mercato che inizia piano piano a imporsi, ci porta a pensare che il Self-Publishing sia un fenomeno del XXI secolo.

In realtà, l’autopubblicazione è sempre esistita: gli scrittori si sono sempre autopubblicati. Qualche esempio? Tra i più celebri citerei Edgar Allan Poe che pubblicò a proprie spese nel lontano 1827 Tamerlano e altre poesie, il libro che segnò il suo esordio letterario; o Marcel Proust che fu auto-editore del primo volume della Recherche (Dalla parte di Swann, 1913);  o ancora Italo Svevo, che fece lo stesso servendosi di editori a pagamento per stampare Una vita (1892), Senilità (1898) e la La coscienza di Zeno (1923).

Ma cosa spingeva uno scrittore ad autopubblicarsi? Semplice: il rifiuto da parte dell’editore di pubblicare il suo libro.

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  • Dalla vanity press all’editore di se stesso

Fino a non molto tempo fa, Self-Publishing era sinonimo di “vanity press”, termine dispregiativo che, non è difficile da intuire, si riferisce all’editoria a pagamento quale mero frutto della vanità dello scrittore. Quello stesso scrittore definito da Eco nel suo Pendolo di Foucault – con non meno disprezzo – “APS” (Autore a Proprie Spese).

Insomma così descritto, questo self-publisher è proprio uno sfigato: pubblica da solo il proprio libro che nessuno vuole pubblicare; ci rimette dei soldi e spesso lo fa solo per soddisfare il proprio ego.

Se le cose stessero effettivamente così, non sarei qui a parlarne e non farei nemmeno il lavoro che faccio. Del resto, oggi il termine “vanity press” viene usato sempre meno e comunque raramente come sinonimo di autopubblicazione.

Il Self-Publishing oggi è un fenomeno editoriale con una propria identità e il sinonimo di self-publisher non è sfigato, ma editore di se stesso. Qual è la differenza tra Poe che si autopubblicava nell’Ottocento, il vanity writer e l’editore di se stesso? Cosa ha contribuito a definire quell’identità di cui sto parlando?

Ve lo spiego nella seconda parte di questo post che la  Efferre pubblicherà la prossima settimana. 😉

 

Credit foto:
narcissus.ME

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